lunedì 17 febbraio 2020

"Il mio corpo è stato prigioniero, ma la mente no





Nel suo discorso presso il Teatro Degli Arcimboldi di Milano, pronunciato giorno 20 gennaio in occasione del Giorno Della Memoria, la senatrice a vita Liliana Segre si rivolge a tutti noi ragazzi.
Ci parla come una nonna parlerebbe ai suoi nipoti e ci racconta della sua vita e degli anni terribili trascorsi durante la seconda guerra mondiale. Quando era bambina, a causa delle leggi razziali del 1938, poiché apparteneva a una famiglia ebrea, improvvisamente non ebbe più la possibilità di frequentare la scuola. Successivamente, le cose si complicarono ulteriormente. Lei viveva a Milano, ma visto che i soldati avevano iniziato a deportare gli ebrei nei campi di concentramento, si dovette nascondere in casa di amici, mentre il padre cercava una sistemazione per i nonni. Successivamente il padre la riprese con sé e insieme andarono in Svizzera, incamminandosi attraverso le Alpi. Vennero però scoperti e rimandati in Italia dove furono spostati da un carcere all’altro. Lei aveva tra i dodici e i tredici anni, ma già aveva assunto un comportamento materno nei confronti del padre che, disperato, mostrava in quell’occasione alla figlia tutta la sua fragilità. Infine, furono portati in treno fino ad Auschwitz. Arrivati al campo di concentramento furono divisi, gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Fu allora che Liliana Segre vide suo padre per l'ultima volta.
Liliana non si riconosceva più perché lì alle donne venivano rasati i capelli. Piangeva, soffriva, ma col tempo cominciò a diventare fredda, non pianse più, ciò che era passato era passato, non guardava più indietro pur di sopravvivere.
Lavorava molto e, per la sua giovane età, caricava sulle spalle pesi enormi, che trasportava dal campo all’officina dove lavorava. Periodicamente era costretta a spogliarsi con le altre in una stanza dove un medico crudele vedeva se i loro corpi erano in buone condizioni, in caso contrario venivano uccise. Di sera mangiavano solo un pezzo di pane con un po' di marmellata. Dopo un anno e mezzo, all’età di quattordici anni, con l’arrivo dei Russi si salvò. Racconta che, dopo tanto tempo, poté finalmente rivedere le foglie verdi e le venne voglia di iniziare a vivere di nuovo. 
Questa storia ci ha colpito molto. Non ci aspettavamo che le persone potessero essere così indifferenti verso la sofferenza. Lo troviamo ingiusto perché tutti siamo uguali. Del suo discorso ci ha impressionato molto la sua voglia di andare avanti in ogni attimo della sua vita, nonostante tutte le avversità affrontate, e questo ci ha fatto capire che non dobbiamo mai perdere il nostro desiderio di vivere. Ci siamo rattristate quando abbiamo saputo che Liliana non aveva più rivisto suo padre una volta arrivati ad Auschwitz. Dalle sue parole abbiamo capito che non dovrebbero mai accadere episodi di razzismo e che tutti dobbiamo avere gli stessi diritti e doveri.

Soprattutto rimarranno impresse nella nostra memoria due frasi pronunciate da Liliana, piene di speranza per noi giovani:
"Noi donne siamo fortissime!"
"Il mio corpo è stato prigioniero, ma la mente no!".

Karola Santoro e Alice Sutera, classe IN

(Per la rubrica "la scuola siamo noi")

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